Le continue notifiche e l’ossessione per la perfezione hanno dato spazio alle distorsioni di un mondo sempre più virtuale e meno a misura d’uomo. Sempre più onnipresente nelle nostre vite, al punto da aver modificato il nostro modo di stare con gli altri e di lavorare. Ne parla con noi Alessio Carciofi, professore, speaker in benessere digitale e corporate wellbeing, nonché autore di “ Wellbeing: il futuro umano e digitale del benessere”, il quale ci spiega come costruire un rapporto più sano con il digitale.
Che cosa si intende per “rapporto sano con i propri dispositivi digitali” e come si è arrivati ai fenomeni di dipendenza che oggi coinvolgono quasi tutti?
Iniziamo col dire che quella del rapporto sano con la tecnologia è tuttora una sfida. Nessuno ha con sé la ricetta magica e sono il primo a prendere le distanze da coloro che promettono ricette miracolose. Quello del digitale resta a tutti gli effetti un ambiente, per noi ancora nuovo, che, dati alla mano, frequentiamo abitualmente circa 6 ore e 40 minuti al giorno. Ed è curioso il fatto che ognuno di noi, dai più piccoli ai più grandi, sia abituato a frequentare centinaia di corsi per acquisire quella o quell’altra competenza, ma nessuno, o quasi, sul come vivere in questo mondo digitale. Una sfida che coinvolge tutti, sia i bambini più piccoli, a cui viene messo di fronte uno schermo per distrarli, sia gli anziani, che passano lunghe giornate sui Social. Le statistiche, infatti, ci dicono come i più anziani – over 75 – abbiano molto tempo libero e si sentano isolati dalla società, due fattori che li portano ad essere più dipendenti dal digitale. Ora, prima di demonizzare tutto ciò che è digitale sulla base di questi pochi elementi, occorre fare attenzione e ricordarsi che è la dose a fare il veleno. Il digitale offre molteplici vantaggi, prospettive di lavoro e ci ha aiutati in momenti difficili, come è stato durante la pandemia. Il problema è che proprio dopo quest’ultima, e con la concomitanza di altri fattori, siamo oggi un po’ tutti, e inconsapevolmente, dentro una mondo il cui controllo ci è sfuggito di mano, e da tempo. Abbiamo investito talmente tanto in ricerca, si pensi solo all’intelligenza artificiale, da esserci dimenticati di aggiornare la parte fondamentale: quella umana, il nostro modo di stare nel digitale. Ed oggi l’Europa, e con essi altre istituzioni, ci chiedono proprio di sviluppare la competenza del benessere digitale, inteso come usare in ottica produttiva gli strumenti digitali senza intaccare la sfera personale.
Ma come si è arrivati a questo punto? Qual è stata la genesi che ha reso gli uomini più macchine e viceversa?
Tutto nasce poco meno di vent’anni fa, quando di fronte a una platea tanto scettica quanto a tratti entusiasta, venne presentato il primo I-Phone e Steve Jobs disse: “questo dispositivo cambierà la vostra vita”. Da lì in avanti è iniziato il processo di democratizzazione del dato che ha fatto sì che tutti avessimo accesso alle informazioni. Poi è arrivata l’era dei Social, del passaggio dalla fruizione passiva dei contenuti alla loro produzione attiva da parte degli utenti. Ed è qui che si è saldata la relazione tra contenuto e parte emotiva, nonché il conseguente confronto sociale con gli altri e le loro vite, che è poi una delle fonti di maggiore ansia e di bassa autostima. Le vite artificiali, con la cultura del confronto, dell’apparire e dell’esserci, hanno iniziato a fomentare il Fear of Missing Out, ossia la paura dell’esclusione. Ciò ha portato moltissimi a creare un’identità sociale che non contemplava la fragilità umana, e all’apice di questa deriva è arrivato il Covid. E se da un lato la presenza della tecnologia ci ha aiutati a superare i lockdown, dall’altra ha anche creato e amplificato delle abitudini che invece di restare confinate nella straordinarietà di quel periodo sono debordate nelle nostre routine. Dal fare delle riunioni online sempre e comunque, anche quando vi sarebbe la possibilità di vedersi di persona, al doomscrolling, di cui siamo quasi tutti cintura nera. Purtroppo viviamo oggi situazioni per lo più ordinarie, ma con una cornice interpretativa costruita durante l’eccezionalità. Ed ora stiamo entrando in una nuova fase, con l’IA e i mondi virtuali, nella quale, paradossalmente, la tecnologia conosce i nostri bisogni e le nostre fragilità meglio di noi stessi. L’obiettivo che abbiamo di fronte è quello di tornare ad essere più umani e qui il lavoro da fare è davvero molto, perché non possiamo pensare di chiudere semplicemente lo smartphone nel cassetto e tornare al mondo di prima.
Sul rapporto tra Social e lavoro, e più in generale sul tema della disconnessione, c’è oggi un forte dibattito. È possibile trovare un equilibrio nel rapporto con la tecnologia e se sì, come?
Partirei da una premessa, il lavoro è cambiato. Se prima lavoravamo seguendo un orario 9-17/19, con l’avvento del digitale siamo arrivati a 7-24. Ora siamo sempre connessi, nonostante la nostra mente sia stata progetta, a livello neurologico, per avere dei momenti senza input dall’esterno. E tali momenti servono per riordinare le informazioni, le emozioni, e soprattutto fermarci a riflettere un attimo sul che cosa stiamo facendo e sui perché dietro le nostre azioni. Poiché se siamo sempre immersi in un mare di input è impossibile vivere dei momenti di solitudine, i quali sono però fondamentali per la nostra crescita. La cultura del lavoro, inoltre, è ancora impregnata da dogmi anacronistici rispetto al tempo in cui viviamo, come ad esempio quello secondo cui “chi si ferma è perduto” o “chi dorme non piglia pesci”. La realtà è che oggi chi non si ferma è in burnout. Punto. Dobbiamo riscrivere le regole del mondo del lavoro, perché la questione non è legata solo al luogo in cui si lavora – in sede o in smartworking – ma al come si lavora. Senza un cambiamento culturale, che coinvolga in primis chi gestisce dei gruppi, e che purtroppo è a digiuno di questi temi, continueremo a utilizzare gli strumenti e le potenzialità offerte dal digitale attraverso una mentalità ancora analogica, ossia quella che ci ha condotto alle attuali distorsioni. A una cultura del presenzialismo, che ci impedisce di discernere le richieste urgenti da quelle che non lo sono e di imparare ad essere sì sempre disponibili, ma non sempre a disposizione. Due concetti diversi che però con il tempo sono andati a sovrapporsi. Occorre poi imparare a distaccarsi, sul piano emotivo, da tutta una serie di aspettative, come il “non mi sento all’altezza”, “non sono produttivo”, le quali, di fronte a una richiesta eccessiva da parte di un superiore, impediscono di prendere la dovuta distanza. Da questo punto di vista la generazione Z è più equipaggiata rispetto alle altre.
E in questa, che è una fase di transizione tra il periodo estivo, quindi di ricarica, e quello lavorativo, fatto spesso di abitudini non sempre positive per il nostro benessere, che tipo di accorgimenti possiamo adottare per costruire un nuovo rapporto con il digitale?
Dobbiamo innanzitutto adottare la forma mentis dell’atleta, poiché ci è utile a imparare il come gestire i tempi durante la giornata lavorativa. Esiste infatti un tempo per l’allenamento, uno per il multitasking, che coinvolge più attività in simultanea, uno per le gare, in cui si focalizza tutta l’attenzione in un solo compito e nel momento per noi più produttivo della giornata, e infine uno per il recupero, che il più importante. La domanda che ci dobbiamo porre è: durante la mia giornata lavorativa riesco a vivere questi tre momenti? Non possiamo pensare di vivere solo il tempo del multitasking. Le ricerche, infatti, ci dicono che dedichiamo il 36% del nostro tempo a recuperare tempo dovuto alle distrazioni, legate proprio all’assenza di momenti di recupero e di focus. Siamo ormai giunti al punto di non riuscire neanche più a concentrarci, perché abbiamo delegato ai dispositivi digitali la nostra memoria. Riacquistare la capacità di concentrazione è quindi fondamentale e con essa la consapevolezza di quand’è per noi il momento della giornata di maggiore produttività, ossia quello in cui riusciamo a sfruttare meglio la nostra energia e convogliarla nei compiti che ci richiedono maggiore sforzo e che sono più importanti. Infine, è importante tornare a una pianificazione dei compiti, di una to do list, a misura di essere umano, sostenibile, e non più di supereroe, e fare meno cose ma farle meglio.
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